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“VESUVIO ovvero: come hanno imparato a vivere in mezzo ai vulcani” un documentario di Giovanni Troilo

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L’area che comprende il Vesuvio e i Campi Flegrei —il secondo super-vulcano che periodicamente ricorda agli abitanti delle zone di Agnano, Pozzuoli e Bagnoli della sua esistenza attraverso stormi sismici ricorrenti—, è la più densamente abitata d’Europa. In caso di eruzione i risultati sarebbero catastrofici. Il documentario “Vesuvio ovvero: come hanno imparato a vivere in mezzo ai vulcani” prende avvio dall’analisi del potenziale di devastazione di una possibile eruzione e del livello di criticità con il quale si avrebbe a che fare.

Attraverso le storie, spesso al limite del paradossale, di coloro che si trovano a vivere su una vera e propria bomba a orologeria, si indaga il rapporto di simbiosi profonda che lega questa straordinaria umanità ai suoi vulcani; si esplorano, in una zona franca dal giudizio, le ragioni razionali e irrazionali che inducono a vivere questo rapporto di continuo scambio con la montagna nera. Nelle infinite possibilità di umana declinazione.

Assieme agli elementi tecnici e scientifici, sono le storie di sarti, casalinghe, professori, cartomanti, ostetriche, giornalisti, contadini ed eremiti a susseguirsi in un insieme di prove tangibili di un pericolo sempre presente, alla magia e alle molte superstizioni, nel tentativo di spiegare l’esistenza precaria di coloro che ancora vivono alle pendici del vulcano con l’aspirazione a una vita più semplice e, forse proprio per questo, più vitale.

Il Vesuvio è il vulcano dalla storia meglio documentata al mondo. Se ne sono occupati geologi, archeologi, filologi e antropologi. È un paesaggio globale fatto di miti popolari; descritto da scrittori e poeti, registi e musicisti. Da Plinio il Vecchio il suo fascino arriva fino a Leopardi e Malaparte. L’eruzione del 79 d.C. lega il suo nome alla classicità, mentre quella del 1631 alla storia moderna. La tragedia imminente, scampata o persistente, salda il destino del vulcano a quello di coloro che ne abitano la zona circostante e che dopo ogni singola eruzione hanno ricostruito le loro città e i loro paesi devastati.

Per molti, il Vesuvio non rappresenta solamente una minaccia, ma anche l’incarnazione di un’identità. È attraverso le storie di queste persone che l’opera di Giovanni Troilo prende vita. Il vulcano, la montagna nera, incombe sulla città Napoli e sull’area limitrofa: su ospedali dove ogni giorno giovani madri si preparano a partorire, sulle industrie, sui paesi e sulle cittadine. Sulle persone che in questi luoghi hanno scelto o si sono trovate ad abitare.

Giuseppe Mastrolorenzo, esperto vulcanologo e in particolare studioso del Vesuvio e dei campi Flegrei, introduce la possibile catastrofe che riguarda tutte le vite, vecchie e nuove, che popolano le pendici del vulcano. Nel corso del documentario, i suoi interventi tornano più volte a illustrare ciò che potrebbe accadere da un momento all’altro: una catastrofe imprevedibile che spazzerebbe via immediatamente milioni di esistenze.

L’umanità che circonda il vulcano è varia e complessa, fatta di vite semplici, di esistenze eccezionali, di passatempi e lavori regolari, di testimonianze al di fuori dell’ordinario: a pochi chilometri dal vulcano, si vedono gli allievi di una scuola di ballo che proseguono con i loro corsi coscienti della minaccia costante ma, come tutti, speranzosi di non vedere mai la cenere scivolare giù per la costa della montagna. Nello studio televisivo di Paradise TV a Ercolano, esattamente ai piedi del vulcano, si assiste alle esibizioni di vari cantanti neomelodici con la testimonianza del titolare Pino Grazioli che ricorda ancora i racconti del padre, presente all’eruzione del 1944.

Si entra dietro le quinte del teatro San Carlo di Napoli, dove si allestisce il palco per la messa in scena di un’opera lirica che ha il Vesuvio come sfondo, assistendo alle prove del coro delle voci bianche potendo scorgere la montagna nera dalla terrazza. A sorvegliare su queste esistenze, almeno in parte, è l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, che tiene monitorata l’attività vulcanica del Vesuvio e dei Campi Flegrei. In caso di segnali di “movimento”, i tecnici dell’INGV sarebbero tra i primi a dare l’allarme – che probabilmente però, non sarebbe abbastanza per garantire l’evacuazione degli abitati. Il documentario ne testimonierà parte dell’attività.

Alle testimonianze presenti, si alternano immagini d’archivio per raccontare un po’ del passato che ha legato le popolazioni della cosiddetta “zona rossa” ai loro vulcani. Durante l’ultima eruzione i mezzi
tecnologici erano ancora più precari e le colonne di evacuati affollavano le strade sinistrate dai bombardamenti della guerra non ancora passata completamente. I soldati americani affiancavano i civili nella pulizia delle strade e negli scavi alla ricerca dei feriti.

C’è poi la storia di Ciro e Elena, che gestiscono una fabbrica di fuochi artificiali in un cratere sulle pendici del vulcano: la Pirotecnica Vesuvio. Elena si è trasferita dal nord e ha trovato casa in una delle situazioni più inverosimili che potesse immaginare. Per Ciro, che ha rilevato l’impresa di famiglia, è invece normale lavorare lì: è il suo destino. Per chi viene da fuori è spesso difficile comprendere come si possa non nutrire la voglia, o la speranza, di cercare un’esistenza più facile.

I loro fuochi d’artificio illuminano le feste dei paesi della “zona rossa” mentre, di notte, centinaia di contadini e abitanti dei paesi dell’area vesuviana portano in processione l’effige della Madonna per 53km, verso il santuario di Pompei per assicurarsi la benedizione dei frutti del loro lavoro. La processione si snoda per le vie dei paesini, le voci dei pellegrini risuonano nell’aria: pregano e cantano. L’effigie sobbalza come se stessero navigando sul mare di teste che salgono al santuario. Il Vesuvio è ben visibile per tutto il tragitto: le sue pendici sono illuminate da migliaia di luci delle abitazioni e anche questa testimonianza farà parte del nostro racconto.

L’impossibilità di un’evacuazione non riguarda solamente i cittadini che risiedono nelle abitazioni private: nella zona rossa sorgono ospedali, centri diagnostici, industrie, cliniche e case di riposo per anziani. Come farà la Protezione Civile a simulare l’evacuazione di queste strutture? È qualcosa che il documentario cerca di scoprire. Per sottolineare ancora meglio le criticità dei piani di evacuazione si mostra quella programmata in una scuola primaria a Ercolano: decine di studenti nei corridoi, il suono di una sirena e una voce dall’altoparlante.

Il preside che si affanna a guidare le masse svogliate di studenti e i professori che cercheranno di indirizzare i ragazzi verso le uscite indicate nel piano di evacuazione. E poi si vedono scene di vita quotidiana come centinaia di auto incolonnate nel traffico: come potranno le forze dell’ordine riportare la calma in un clima che sempre più si avvicina al caos totale già solo nell’evenienza di una prova?

Tra le attività produttive che punteggiano le pendici del Vesuvio, la fonderia Ruocco sorge proprio all’interno della montagna, vicina alla lava, all’energia vitale e distruttiva. La sartoria Panico, invece, si trova a Napoli e dal vulcano trae istinto e ispirazione. Il documentario esplora anche queste esistenze assieme alle altre, dense di compromessi e paradossi. Vivere tra due vulcani induce la popolazione a sviluppare un rapporto molto singolare con la fede e con la superstizione.

Al duomo di Napoli si vede l’annuale appuntamento con il miracolo della liquefazione del sangue: San Gennaro sarà clemente? I presagi non sono rari sotto la montagna nera: medium e sensitivi abitano tutta l’area circostante. Goblin, conosciuto come “psicomago”, ad esempio, vive sul cratere e da esso trae la sua forza, come gli animali che lo circondano. Il tema dell’esoterismo è profondamente legato all’energia sprigionata dal vulcano e in molti giurano di poter prevedere le eruzioni e controllare la forza della lava ribollente sotto di loro.

Anche i più anziani tra gli abitanti della “zona rossa” sono soggetti a questo tipo di energia: per Ciro, che vive in una baracca sul fondo del cratere di Agnano con la sola compagnia di una donna di origine polacca, non esiste altra vita al di fuori di lì, dove coltiva friarielli nella terra magmatica. Ha assistito all’eruzione del 1944 e sa cosa significa vedersi portare via tutto dalla lava ardente, ma crede nella profonda bontà della montagna e si rifiuta di lasciare i suoi pochi possedimenti.

Accanto alla solfatara dei Pisciarelli di Agnano, Sonia Scalpellini ci accompagna a scoprire cosa significa vivere in presenza delle fuoriuscite solforose. «L’odore di zolfo non va mai via», dice. «Lo si sente nei vestiti e nelle mani, per me è odore di casa…». Ogni giorno c’è una nuova scossa, ogni giorno non si può fare a meno di pensare al pericolo imminente: l’odore e il gas lo ricordano costantemente. Ciononostante, Sonia e la sua famiglia hanno deciso di rimanere.

Gerardo, un altro abitante della “zona rossa”, fornisce una testimonianza di prima mano della rabbia del popolo guidandoci lungo le pendici verso una solfatara fumante su un terreno di sua proprietà dove raccoglie l’acqua sulfurea come gli ha insegnato suo padre, che prima di lui ha convissuto con la montagna nera.

Il fantino Ferdinando si allena ad Agnano, sul fondo di un cratere. Sarà lui, prima di proseguire per il mare, che ci guida da Madame Luigia, una sensitiva di quasi novant’anni: per tutta la vita ha lavorato sul vulcano e sa cosa significa temere per il proprio destino e per quello degli altri. Sa anche che il vulcano si può tenere buono, si può farselo amico, ma non si può raggirarlo. È specializzata in anatemi e in cure dalle maledizioni. La sua pratica è un miscuglio di paganesimo e cristianesimo, il Vesuvio e l’intercessione di San Michele possono compiere miracoli. È stata lei l’ultima a prevedere la prossima eruzione: tra soli quindici anni.

Che si tratti di una previsione attendibile o priva di fondamento, che la scienza sia o non sia in grado di stabilire quali saranno le prossime mosse del supervulcano, che la tecnologia e l’organizzazione siano capaci di far fronte alla catastrofe, le vite raccontate in questo documentario sono la testimonianza di un’esistenza collettiva eccezionale.

Relazione artistica del regista Giovanni Troilo

I veri protagonisti di questo film documentario sono il Vesuvio e i Campi Flegrei, due tra i vulcani più pericolosi al mondo che abbracciano e allo stesso tempo tengono stretta in una morsa la città di Napoli.
Quando la camera scorre, a scorrere è la loro soggettiva che passa in rassegna la fitta umanità che li popola, che consapevolmente o meno ha scelto di stare lì, come fosse l’unica possibilità, come se si trattasse di un magnete a cui è impossibile sfuggire.

Le storie si succedono senza soluzione di continuità. La camera raramente indugia su qualcuno o su qualcosa, ma lentamente, come la lava del racconto di Norman Lewis, travolge quello che incontra. Entra per pochi minuti nel profondo delle storie, per poi passare a quella successiva. Penetra e ricuce la realtà. L’utilizzo di una tecnica di ripresa innovativa è l’unico modo possibile per ottenere questo tipo di risultato in un film che non sia di pura finzione.

Una camera piccolissima capace di registrare in 6K e l’uso di uno stabilizzatore giroscopico consentono simultaneamente di dare allo spettatore la sensazione di galleggiare nello spazio che la camera attraversa e insieme di avere un impatto praticamente nullo sul lavoro di osservazione pura del documentario. I personaggi sembrano non accorgersi neppure del passaggio della camera e si rivelano nella loro intimità. Un lavoro di ricerca e di relazione con quei personaggi durato due anni e l’utilizzo di una troupe estremamente ridotta sono gli altri elementi chiave per raggiungere questo tipo di risultato. Il tentativo è quello di restituire uno spaccato, un affresco il più ampio possibile di una mescola umana che solo a Napoli riesce a realizzarsi pienamente.

Il sarto, la maga, lo scenografo e le coriste del San Carlo, il vulcanologo, l’ostetrica, il giornalista di una tv locale, i confratelli di San Gennaro, l’artificiere. Vite eccezionali e vite apparentemente normali. Tutti sullo stesso piano, tutti sopra a un vulcano. Il vulcano, i vulcani dunque condizionano l’esistenza di chi vive in loro prossimità, di chi consuma i giorni aspettando un’eruzione che potrebbe arrivare domani, nel cuore della notte, o non arrivare mai?

La gente ha rimosso la paura di morire ed è già morta solo per questo. Pensa che vive per sempre e non vive oggi” ammonisce Goblin, lo psicomago che vive sulle pendici del Vesuvio. Nel succedersi delle storie si rimane disorientati, incantati dai personaggi, si perde la via per ritrovarsi dopo più di un’ora, lontani dal punto di partenza. Per dare una mappa del percorso ricorriamo alla grafica, un tipo di grafica che raramente viene utilizzata nel documentario.

Dei tracciatori 3D collocano le lettere, i numeri che spiegano che siamo sempre più vicini al vulcano, all’interno della scena quasi ne facessero parte davvero:
CLINICA OSTETRICA – NAPOLI, 8 KM DAL VULCANO
TEATRO SAN CARLO – NAPOLI, 5KM DAL SUPERVULCANO
PARADISE TV – ERCOLANO, 4 KM DAL VULCANO
MADAME LUIGIA – SOCCAVO, 1 KM DAL SUPERVULCANO
CIRO – AGNANO, DENTRO AL SUPERVULCANO

Ma rimarcare le distanze non basta. A voltarsi indietro non vediamo più quella cartolina da cui eravamo partiti quando tutto sembrava chiaro e definito, e ci ritroviamo sprofondati nel ventre di qualcosa di nuovo e diverso che ci affascina e ci respinge. Tutto ci appare meno logico, la consecutio diventa analogica e risponde ad algoritmi che fatichiamo a sciogliere. Questa materia nuova più soffice e vischiosa a cui non siamo abituati ci incanta e ci assorbe. Il terreno smette di essere il riferimento. La terra trema si muove salta e sobbalza tutto il giorno, tutta la notte.

Ogni certezza diventa mobile, l’indiscutibile si discute. Allora forse anche l’inafferrabile può essere scorto. Napoli non è più quella in superficie, andiamo a scoprire, di lettera e di metafora, la materia di cui la città è fatta: un’immane colata lavica dei Campi Flegrei che ai tempi modificò il clima, uno strato di 50 metri di tufo giallo su cui la città venne fondata e di cui a Napoli ogni abitazione, chiesa, monumento è fatta. Ogni frutto, ogni fiore, ogni germoglio, ogni pulviscolo nell’aria, ogni particella in acqua, ogni batterio genera e origina da quel sedimento. A Napoli non si è vicini o dentro a un vulcano. Si è vulcano.

Il Napoletano lontano da qua muore. Il Napoletano vuole sentire o burdell che non è altro che l’esplosione silenziosa del Vesuvio che esplode dentro le persone” rimarca sempre lo psicomago. E ci ricorda anche che dobbiamo chiederci: ma quando avverrà l’eruzione? Saranno, saremo pronti ad affrontarla? Cosa capiterà? E se i sismografi dell’INGV non danno pace, la risposta della maga non ci soddisfa. E allora l’eruzione, semplicemente, accade. Non una, ma più volte nel corso del documentario.

Ricordata, mostrata, simulata, scongiurata. Evocata! Evocata sì, e nel suono c’è l’artificio. Quando nella scena dei fuochi pirotecnici l’audio progressivamente si svuota, abbandona le frequenze alte e lascia corpo a quelle più profonde, quelle del subconscio. Il suono apre voragini e modifica il Tempo. Il wormhole è aperto, il rumore sordo dell’eruzione di Pompei può dunque giungere a noi. La cenere come neve danza intorno ai calchi, eterno monito che la realtà può trasformarsi in un attimo e senza avvertire. Di nuovo il suono si riapre e torna manifesto, la scena di un temporale di notte, le sagome dei pellegrini sotto ai cellophan di fortuna riaprono una danza diversa ma simile, cambia solo il tempo a ricordare che tutto cambia, ma niente cambia.

E se la convivenza con il pericolo sembra uno stato di eccezione, un paradigma napoletano, quel piccolo egoistico senso conforto lentamente scompare e lascia il posto a un’idea più chiara: non c’è essere umano sul pianeta che possa sentirsi al riparo. Il rischio sismico in Italia, l’uragano Katrina negli Stati Uniti, le centrali nucleari di Fukushima, gli incendi in Siberia e in Australia, il riscaldamento globale ci ricordano che malgrado si tratti di tragedie annunciate, l’uomo spesso tende a sottovalutare quel pericolo.

Non c’entrano le latitudini a cui quei fenomeni si verificano, non c’entra la presunta capacità di alcune società di fronteggiarle, sembra connaturata alla natura umana e ai meccanismi politico decisionali. È un fatto di iperoggetti, è un fatto che dipende dalla limitata capacità dell’uomo di leggere fenomeni complessi, dalla asincronia irrisolvibile tra la durata, breve, della vita umana e la periodicità, lunga, con cui gli eventi catastrofici di questa portata si manifestano in tutta la loro forza.

E se la pandemia del Corona virus ci dimostra l’attitudine dell’umano a dimenticare, al tempo stesso ci mostra la sua capacità di imparare rapidamente a convivere con le catastrofi, con la violenza, con la morte e con la vita. Di come insomma tutto questo sia l’unico filtro possibile per poter dare un senso a tutto quello che ci circonda.

Giovanni Troilo

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