GOMORRA di Matteo Garrone
Più di un film; Gomorra è un trattato sociologico, antropologico, una narrazione di un concetto perverso di vita malsana divenuta quotidianità e normalità; se vedendolo la sensazione d’angoscia è fine a sé stessa e gli argomenti e le condizioni trattate vi sembrano lontane anni luce dal vostro mondo e da ciò che vi circonda allora fatevi un esame di coscienza: se siete napoletani non potete sfuggire alla realtà che inquina da decenni Partenope, se siete di altre città siete coinvolti esattamente alla stessa maniera di chi come me vive a contatto con questo “cancro”.
Garrone esemplifica in immagini il libro di Saviano, rendendolo decisamente più indigesto perché la crudezza e l’orrore di ciò che la realtà ti mostra è quasi sempre più devastante di come la si possa immaginare: anche per questo l’opera dello scrittore napoletano aveva per molti, troppi, più le sembianze di un romanzo che di una cronaca fedele dei fatti malavitosi che accadono ormai da tempo, quasi si cercasse in questo modo di allontanare la verità mettendo in primo piano la magnifica prosa e non ciò che raccontava.
Per questo sono convinto che il regista con il suo film abbia integrato, definito ed esaltato il lavoro di Saviano, che ha preso parte alla stesura della sceneggiatura con Braucci, Chiti, Gaudioso e Di Gregorio.
Se leggo i giornali degli ultimi anni, se ascolto e guardo i telegiornali, mi accorgo che ciò che ho visto al cinema in Gomorra racconta vicende tragicamente contemporanee e purtroppo molto presenti nella nostra società: la guerra di Scampia con clan egemoni e scissionisti, discariche abusive di rifiuti tossici e degenerazione delle condizioni di umana civiltà dovuta ad affari ed interessi economici, criminalità giovanile che aspira a conquistare un posto ai vertici della malavita locale, mercati sommersi di merce falsificata e di contrabbando con investimenti e connessioni internazionali; tutto questo con la violenza a farla da padrona, con le armi come protagoniste , con lo scopo primario di soggiogare o fregare i propri simili per diventare più ricchi, più potenti, incutere timore.
La giungla malavitosa ha però aspetti imprenditoriali che ramificano in tutta Europa, in tutto il mondo: e nel film il personaggio del cosiddetto “stakeholder” (letteralmente portatore d’interessi) che offre alle aziende settentrionali di smaltire i loro rifiuti tossici a prezzi stracciati è l’emblema dell’universo economico creato dalla camorra, e l’interpretazione di Toni Servillo, la sua aria da manager sicuro e distaccato, ne descrive appieno l’indifferenza verso il crimine che sta perpetrando, consapevole dell’essenzialità di ciò che fa, e paradossalmente convinto di essere dalla parte della ragione (“Non sono io che ho inventato l’amianto, io risolvo problemi creati da altri”). A ripensare ai lunghi momenti di crisi rifiuti vissuti a Napoli sentire certe parole e vedere alcune scene, come quella delle cave e della scelta dei siti per lo smaltimento, fa crescere una rabbia indescrivibile oltre a far aumentare la consapevolezza che in Gomorra, libro e film, si sia raccontato minuziosamente uno dei motivi che ha portato alla situazione critica che si è vissuta, ed è forse l’episodio narrato che più avvicina emotivamente i non napoletani al film visto che da decenni le industrie settentrionali si accordano con la camorra per sversare il loro marciume in Campania.
La pellicola è da giudicare almeno sotto due aspetti ben distinti: il prodotto cinematografico – l’opera dal punto di vista tecnico – e l’argomento trattato.
L’opera di Garrone può straordinariamente essere definito un collante tra cinema d’autore e cinema popolare, con il successo al botteghino, grazie alla spinta del libro, all’eccezionalità delle tematiche trattate, all’interesse suscitato negli spettatori di qualsiasi rango e nazionalità; e ciò che penso sia importante è che sia proprio un lavoro di questo regista ad essere stato visto da tante persone, magari non abituate a tale concezione di cinema. Garrone, come i precedenti L’imbalsamatore e Primo amore e i successivi Reality e Il racconto dei Racconti , governa le scene rendendo essenziale l’occhio dello spettatore, facendogli prendere parte alla devastazione fisica che può avvenire in un’esecuzione così come a quella morale sprigionata dal terrore di chi vi assiste; le scenografie scarne e spesso squallide, siano esse d’interni o paesaggistiche, vengono riprese come i protagonisti, divengono importanti nella narrazione quasi a sottolineare l’imprescindibile legame tra il chi e il dove.
Le interpretazioni amplificano il realismo delle situazioni, oltre a Servillo attori navigati e di estrazione teatrale quale Gianfelice Imparato e Salvatore Cantalupo, l’intensa Maria Nazionale, apprezzata cantante di melodie napoletane; e su tutti comunque vanno lodati i ragazzi, gli attori improvvisati come Ciro Petrone, Marco Macor e Carmine Paternoster, in una cornice che Garrone ha voluto accostare a un capolavoro del neorealismo come Paisà di Roberto Rossellini.
Proprio il solco del grande cinema italiano rende devastante l’impatto che ha avuto l’arrivo in sala di un film come Gomorra: tornare a raccontare il paese così come facevano Francesco Rosi, Elio Petri, unendo lo sguardo artistico a quello critico e di inchiesta, palesando lo stato delle cose, anche delle peggiori non banalizzando le ragioni sociali ma integrandole e rendendole essenziali nella narrazione, può infondere coraggio ai nostri cineasti e ancor di più a chi prende le decisioni nell’industria cinematografica.
Per questo non secondario è il plauso da fare a Domenico Procacci che in tempi non sospetti si assicurò i diritti per la trasposizione sul grande schermo del libro di Saviano, e senza spese eccessive ma con scelte oculate come quella di affidarsi a Matteo Garrone ha prodotto un’opera di ottima fattura e di eccezionale impatto emotivo.
Gomorra è stato presentato al Festival del Cinema di Cannes e giustamente insignito del Gran Premio della Giuria, oltre a raccogliere commenti entusiasti ed elogi per il tipo di cinema rivelato con quest’opera; l’importanza di ciò che è accaduto a questo film è rivelatoria, non perché sia tradizionalmente bello, ma perché era una pellicola necessaria e a maggior ragione girata in questo modo, agghiacciante, crudo, con il dialetto veloce a mordere lo spettatore turbato e ansioso di leggere i sottotitoli per capire, con il paesaggio e gli ambienti squallidi e il fruscio dei soldi a fare da protagonista. Come il libro anche il film deve dar vita a discussioni sull’argomento camorra, generare disagio e prese di posizione, portare quanta più gente possibile a riflettere e rendersi conto di essere ostaggio di questa vergogna a prescindere che abiti a Napoli o a Cannes (paradossalmente legate dallo stesso tipo di costruzioni progettate da Di Salvo: le Vele…a Scampia simbolo (abusato) di degrado e malavita (e malgoverno), sulle coste francesi emblema del lusso.
Inevitabile citare Roberto Saviano e le parole che concludono il libro che ha dato origine a tutto:
“Sono nato in terra di camorra, nel luogo con più morti ammazzati d’Europa, nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale. Sembrava impossibile avere un momento di pace, non vivere sempre all’interno di una guerra dove ogni gesto può divenire un cedimento, dove ogni necessità si trasformava in debolezza, dove tutto devi conquistarlo strappando la carne all’osso. In terra di camorra, combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. Non è la presa di coscienza del proprio onore, la tutela del proprio orgoglio.
È qualcosa di più essenziale, di ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d’affermazione dei clan, le loro cinetiche d’estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza , come se l’esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare.”