È STATA LA MANO DI DIO di Paolo Sorrentino
“Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male.” Diego Maradona
In È STATA LA MANO DI DIO, Paolo Sorrentino torna nella Napoli della sua gioventù per raccontare il turbolento racconto di formazione di un ragazzo, una storia resa ancora più intensa dal legame personale che presenta con il passato del suo stesso autore. È una storia più personale e decisamente più emozionale di tutte quelle che ha raccontato in precedenza. È un’immersione in una memoria viva, in un bellissimo mondo imperfetto che non sarebbe potuto durare. Ma è anche la struggente descrizione dell’impulso ad andare avanti, a creare, a cogliere qualunque sconcertante occasione si presenti, anche in mezzo a un immenso dolore.
Siamo negli anni ’80. A Napoli tutti parlano in modo febbrile di Maradona, l’illustre leggenda del calcio che pare possa, quasi per miracolo, arrivare in città per giocare nella sfavorita squadra locale. L’aria è densa di promesse e l’adolescente Fabietto Schisa la respira a pieni polmoni. Se a scuola appare come impacciato ed emarginato, la vita comunque gli sorride. I suoi genitori sono volubili, hanno i loro difetti, ma si amano ancora. Le loro famiglie sono chiassose, a volte travagliate e tuttavia molto divertenti. I pranzi sono interminabili, i drammi famigliari vanno in scena ogni giorno, la risate sono incessanti e il futuro sembra ancora molto lontano.
Poi, un inspiegabile incidente capovolge ogni cosa. E, come fece un tempo Sorrentino negli anni della sua gioventù, Fabietto deve trovare un modo per sfuggire alle profondità della tragedia e venire a patti con lo strano gioco del destino che lo ha lasciato in vita. Con un passato andato distrutto e nonostante tutto un’intera esistenza davanti a sé, traccia la rotta del suo percorso attraverso la perdita e verso il nuovo.
Questo insieme di devastazione e liberazione è qualcosa che Sorrentino ha sperimentato all’approssimarsi dell’età adulta. E nonostante la finzione e la realtà si intreccino liberamente in È STATA LA MANO DI DIO — talmente liberamente che persino gli elementi fantastici sembrano far parte del mondo perfettamente controllato di Fabietto — il film ricostruisce in modo meticoloso la città e l’atmosfera della famiglia in cui egli è cresciuto.
Nato nel 1970, Sorrentino cresce nel Quartiere Vomero di Napoli, sulla collina che si affaccia sulla distesa panoramica del porto della città. Quando ha 16 anni, entrambi i suoi genitori muoiono all’improvviso e in modo del tutto inaspettato per avvelenamento da monossido di carbonio a causa di una fuga di gas nella casa di villeggiatura della famiglia. Di norma, Sorrentino avrebbe dovuto essere insieme ai suoi genitori quel fine settimana.
L’unica ragione per cui non rimane anch’egli vittima della tragedia è che ha ottenuto il permesso di restare a casa da solo, per la prima volta nella sua vita, per andare a vedere Maradona che gioca in trasferta con il Napoli.
Sorrentino arriva a percepire Maradona, un uomo già ammantato di divinità sul campo di calcio, come una forza che ha protetto la sua vita. Ma anche il cinema diventa una forza salvifica per lui, una distrazione dall’angoscia. Rifugiandosi nel fare film con grande passione, Sorrentino inizia a lavorare come aiuto regista. Esordisce nella sceneggiatura scrivendo POLVERE DI NAPOLI a quattro mani con lo sceneggiatore-regista Antonio Capuano, anch’egli personaggio chiave in È STATA LA MANO DI DIO. Di lì a poco Sorrentino passa dietro alla macchina da presa con la commedia L’UOMO IN PIÙ, interpretata da Toni Servillo, l’ultimo film che realizza a Napoli fino a quando non vi tornerà per girare È STATA LA MANO DI DIO.
Da quel momento in poi, Sorrentino scrive e dirige i suoi film, tra i quali LA GRANDE BELLEZZA, vincitore del premio Oscar per il Miglior film straniero, e YOUTH – LA GIOVINEZZA, candidato agli Academy Awards, nonché l’acclamata serie televisiva HBO The Young Pope e la successiva The New Pope.
Conquista una fama a livello internazionale per lo stile vivace che caratterizza una cinematografia dinamica e sfrenata e una narrazione esuberante. Ma nel caso di È STATA LA MANO DI DIO, il tratto febbrile scompare e lascia spazio a qualcosa di più esposto e più accessibile di tutte le esperienze che ha creato.
Ricordare per poter dimenticare
È in un momento pervaso da un senso di frustrazione per una sceneggiatura di The New Pope che Sorrentino compie un’inversione a U. Per concedersi una meritata pausa dai rompicapi religiosi, decide di prendersi qualche giorno di vacanza e in quei giorni inizia a sperimentare scrivendo una storia che scaturisce semplicemente dalla propria esperienza interiore, dai ricordi che riaffiorano da un passato che forse ha influenzato il suo lavoro nell’ombra, ma che non ha mai affrontato in modo diretto. Per la prima volta, scrive degli eventi più formativi della sua esistenza, alcuni luminosi e divertenti, altri talmente cupi e strazianti che possono apparire inavvicinabili.
In un primo momento Sorrentino non ha in mente di ricavare un film da quello scritto; al contrario, pensa di poterlo offrire in regalo ai propri figli. “Ho pensato che avrebbe potuto offrire loro la possibilità di capire non tanto il mio carattere quanto i miei difetti”, spiega.
L’obiettivo di una franchezza senza difese e senza vincoli di controllo caratterizza la scrittura. La sceneggiatura emerge in modo organico, come un tutt’uno, nel giro di pochi giorni. Se il processo di scrittura è spesso una guerra tra quello che si nasconde e quello che si rivela, qui la nuda rivelazione possiede l’autore. Tuttavia Sorrentino ancora non sa di preciso se questa sceneggiatura emotivamente trasparente resterà solo in famiglia o se prenderà vita nella forma di un film.
“Capita a volte di provare l’esigenza di registrare i ricordi, di fissarli da qualche parte”, afferma. “Ma con il passare del tempo, ho pensato che forse sarebbe stata una buona idea farne un film perché avrebbe potuto aiutarmi non tanto a risolvere i problemi che ho avuto nella vita, quanto ad osservarli da una posizione molto più vicina e a conoscerli meglio. Tutti i miei film sono nati da sentimenti che mi appassionavano, ma dopo averli realizzati quella passione è svanita; così ho pensato che se avessi fatto un film sui miei problemi, forse sarei anche riuscito a dimenticarli, almeno in parte.”
Forse, scrivendo per dimenticare, i ricordi diventano ancora più elettrizzanti e vividi e generano un’immersione totale nei vari momenti rievocati. Per Sorrentino potrebbe essere pericoloso avvicinarsi così tanto al cavo sotto tensione della sua sofferenza personale, ma addentrandosi in questo territorio si rende conto che il processo di realizzazione del film gli consente al contrario uno spazio per prendere un po’ di fiato.
“Per me l’aspetto interessante di fare un film autobiografico è che a quel punto quei problemi non sono più i miei problemi, ma sono i problemi del film”, spiega. “E non appena diventano i problemi del film, diventano più affrontabili. Quando ho iniziato a montare il film, guardare e riguardare quei ricordi è diventata quasi un’abitudine ed è molto più facile affrontare un’abitudine che affrontare un ricordo.”
Se è vero che il cinema può congelare il tempo, Sorrentino percepisce anche il suo potere di aggiungere un’altra dimensione alla storia del film: una comunione con gli spettatori che portano in sala le proprie esperienze di perdita, il proprio vissuto di quei momenti nella vita in cui le cose meravigliose e le cose terribili entrano in collisione. Questa connessione di sicuro non contiene una risoluzione, ma forse può offrire una sorta di conforto. “Se altre persone potranno relazionarsi e identificarsi con le mie esperienze, se si vedranno specchiate nel film, significa che la mia sofferenza sarà divisa a metà”, commenta Sorrentino, che ancora cerca di comprendere la strana logica del dolore infinito.
La fuga dallo stile di Sorrentino
Le emozioni che circondano È STATA LA MANO DI DIO sono talmente potenti, e a tratti persino rischiose, che Sorrentino decide che se realizzerà il film, farà quello che non ha mai fatto prima: ridurre all’essenza ogni singolo elemento. Laddove l’ironia intensa e la stilistica formale sono da sempre gli strumenti distintivi, e in costante evoluzione, nella sua scatola degli attrezzi, qui sceglie di metterli da parte e di permettere alla pura narrazione di posizionarsi al centro della scena.
“Ho cercato di raccontare questa storia senza alcun filtro, in un modo semplice. L’unico filtro è l’evocazione del passato, i ricordi e i sentimenti che provavo quando ero ragazzo”, dichiara. “Per questo film non mi sono preoccupato di un’idea specifica di stile. Ho sentito che sarebbe dovuto emergere in maniera naturale. A dire il vero ho pensato che sarebbe stato molto liberatorio per me fare un film senza uno stile prevalente e mi sono ritrovato ad apprezzare quello che in passato avevo sempre cercato di evitare.”
Tuttavia, per quanto minimale, una ricca energia cinematografica caratterizza È STATA LA MANO DI DIO. La struttura è intessuta non solo di tormento e amore famigliare, ma anche in egual misura di mistero, calore, umorismo e desiderio, tutti elementi che entrano in gioco sullo sfondo della palpabile bellezza di Napoli. L’ordinario e lo spettacolare occupano lo stesso spazio. I dettagli umani dei personaggi brillano della loro stessa vitalità. Si percepisce il senso di come il tempo perduto possa in sé diventare stimolo per l’arte e la creazione.
Il film offre anche un commovente spaccato di vita nella forma di una serie di momenti — un pranzo di famiglia illuminato da sole, una avventata vittoria a calcio, le insensate parole di un dottore, un giro notturno in motoscafo, un treno che sfreccia verso una nuova città — che scivolano tra le nostre dita e tuttavia ci rendono quello che siamo. Il riso alleggerisce costantemente il dolore, risoluta forma di ribellione contro di esso.
Come nell’autofiction in letteratura, Sorrentino fa saltare le linee che separano il vero e l’immaginario, trasformando uno stesso elemento in evento reale e fabbricazione e sfruttando la confusione che caratterizza il procedimento per trovare un modo fresco per evocare l’essenza di un periodo della vita in cui tutto è immerso in un limbo.
“Non è detto che tutto quello che vediamo nel film è realmente successo”, osserva. “Alcuni eventi sono accaduti, altro no. Ma è del tutto autentico nel riflettere quello che ho veramente provato in quel periodo del passato”.
Sorrentino continua: “Penso che la principale differenza tra questo film e gli altri che ho fatto stia nel rapporto tra verità e bugie. Se gli altri miei film si alimentano di falsità nella speranza di individuare un barlume di verità, questo parte da sentimenti reali che sono poi stati adattati alla forma cinematografica”.
Il produttore Lorenzo Mieli, che ha lavorato con Sorrentino sulle serie The Young Pope e The New Pope, rimane sorpreso quando il regista gli parla della sceneggiatura. “Mi ha detto che aveva finalmente scritto un film a cui pensava da molti anni e di averlo scritto di getto, nel giro di 48 ore”, ricorda Mieli. “Quando l’ho letto, sono rimasto scioccato per come era riuscito a scrivere un racconto così intenso, così apparentemente semplice e tuttavia così complesso nelle tematiche che tratta, in un lasso di tempo così breve.”
Per Mieli, È STATA LA MANO DI DIO evoca “quel momento delicato e cruciale in cui passiamo dall’essere dei ragazzi al diventare adulti. È un cambiamento che può essere assimilabile a un salto nel buio, ma è anche il momento in cui impariamo la pratica del vivere.”
Malgrado la differenza stilistica, Mieli considera il film parte integrante della visione generale della vita e del cinema di Sorrentino — conservando l’essenza e i temi che sono incontestabilmente tipici dell’autore. “A prima vista, il film è senz’altro diverso da gran parte dei lavori precedenti di Paolo”, commenta Mieli. “È facile notare come la grandezza visiva del suo cinema o l’uso della musica differiscano rispetto agli altri suoi film. Eppure in È STATA LA MANO DI DIO Paolo esplora cose di cui ha sempre parlato, malgrado lo faccia in un modo nuovo. Penso che ad oggi sia il suo film più maturo e consente a tutto quello che abbiamo sempre osservato nel suo cinema di sbocciare.”
Fabietto, ragazzo in bilico
Quasi tutti i momenti di È STATA LA MANO DI DIO sono vissuti attraverso gli occhi di Fabietto, fino a quando il giovane non li chiude mentre sfreccia verso una nuova vita nella sequenza finale del film. A 17 anni si trova in una fase della vita in cui tutto è sogno. Non ha ancora combinato nulla, non ha neppure una ragazza. Gran parte di quello che sa lo ha appreso dai libri o dalle conversazioni in famiglia sullo sport, la politica e i vari intrighi e speranze degli uni e degli altri.
Tuttavia Fabietto è un osservatore naturale, dote che a giudizio di Sorrentino “può accendere una scintilla che ti porta a fare un lavoro di tipo artistico, che è esattamente quello che succede a lui. Le donne che lo circondano, ma anche suo fratello, suo padre e i pittoreschi parenti diventano il territorio che inizierà ad alimentare le sue riflessioni personali”.
“In ogni caso, quella è un’età maledetta”, osserva Sorrentino a proposito dell’adolescenza. “Vivi in un limbo, in quel territorio di mezzo tra il bambino che non sei più e l’adulto che non sei ancora. Dunque, il tuo rapporto con la realtà è già di per sé complicato. Per Fabietto, diventa ancora peggio perché perde il punto di riferimento dei suoi genitori e non sa come fare per rialzarsi in piedi”.
Essendo Fabietto il suo alter ego, Sorrentino cerca un attore non tanto che gli somigli come una goccia d’acqua, quanto che sia in grado di manifestare senza barriere emozioni personali davanti alla macchina da presa. Nel corso di audizioni aperte, conosce Filippo Scotti, un giovane esordiente italiano che, a insaputa di Sorrentino, coltiva anche un interesse per la regia. Fabietto diventa il ruolo di esordio come attore protagonista di Scotti.
“Tra tutti gli attori che ho provinato, Filippo era il più dotato e ho sentito che si adattava perfettamente al personaggio. Provo nei suoi confronti la stessa tenerezza che provo verso me stesso a quell’età”, dichiara Sorrentino. “Durante l’audizione non gli ho fatto molte domande, né gli ho chiesto della sua vita privata. L’importante per me è stato vedere che aveva la capacità di essere il protagonista di un film e di reggere questo in particolare sulle sue spalle”.
Scotti sostiene di aver preferito non indugiare nel cercare di compiacere Sorrentino. “Ho cercato di non pensare a cosa si aspettasse, perché probabilmente mi sarei agitato troppo. Leggendo la sceneggiatura ho invece cercato degli elementi di me stesso in Fabietto”, spiega.
Sono molte le qualità che sono risuonate. “Fabietto è taciturno e riflessivo, ma ha anche la tendenza ad analizzare troppo le situazioni. La sua timidezza gli complica la vita”, osserva Scotti. “Tra i 15 e i 17 anni, anch’io ho attraversato un periodo in cui ho provato sentimenti simili ai suoi. Non ho perso i miei genitori, ma mi sono sentito molto solo, anche se in modo diverso”.
Anche lui, come Fabietto, è stato un ragazzo che ha trascorso molto tempo in compagnia degli adulti. “A parte alcuni amici veri, sono sempre andato più d’accordo con persone più grandi di me, perché non mi sentivo a disagio insieme a loro”, ammette Scotti. “Forse a 16 anni non ero proprio così pensoso come Fabietto e di sicuro ero meno intelligente. Ma il viaggio che compie Fabietto nel film, a livello metaforico, presenta delle similitudini con il mio”.
Scotti è particolarmente affascinato dal rapporto che lega Fabietto con il fratello maggiore, Marchino. Hanno personalità quasi antitetiche, quindi si attraggono e si respingono come due poli magnetici. “Per Fabietto, Marchino è la causa di molta felicità, ma anche di tante delusioni”, osserva Scotti. “Marchino ha degli amici e persino una ragazza, mentre Fabietto no. Lui ha essenzialmente il suo Walkman e cerca rifugio nel suo rapporto con sua madre e suo padre. Ma nel corso del film, Fabietto incontra una serie di persone che lo scuotono e gli iniettano energia. Insieme a Capuano e Diego Armando, Marchino contribuisce a dare uno scossone a Fabietto”
Benché Sorrentino abbia solo alcune conversazioni con Scotti, secondo il suo consueto modo di lavorare con gli attori, il giovane attore percepisce un legame. “Con Paolo, lavori in modo ordinato e tranquillo. L’atmosfera era sempre molto calma e questo mi ha aiutato tantissimo”, ammette. “Non dimenticherò mai un momento particolare con Paolo mentre eravamo in barca all’alba e Paolo mi ha detto: ‘Per me questo è il posto più bello della terra’. Lo ha detto con un tono di voce particolare e una tale sincerità, che in quel momento ho visto completamente l’uomo Paolo”.
La famiglia Schisa
I componenti della famiglia Schisa assomigliano molto a quelli della famiglia di Sorrentino così come era negli anni ’80, persino nell’acuto e stridente fischio che i suoi genitori adottavano ogni volta che avevano bisogno di comunicare in modo non verbale. Per ritrarre il padre e la madre del film con sfumature viscerali della vita reale, Sorrentino si rivolge a due attori che conosce bene. Nei panni di Saverio c’è Toni Servillo, il famoso attore e regista teatrale italiano che recita nei film di Sorrentino da quando è stato il protagonista de L’UOMO IN PIÙ, fino IL DIVO nel 2008, ruolo che gli è valso l’European Film Award che ha successivamente conquistato anche per LA GRANDE BELLEZZA.
“Per me, Toni è come un fratello maggiore”, dichiara Sorrentino. “Ma è anche una figura paterna, dunque mi è apparso naturale chiedergli di interpretare il padre. È stato molto interessante per me osservare che, come tutti i grandi attori, malgrado non abbia alcun legame con il mio vero padre, Toni sia in qualche modo riuscito ad assomigliargli. È come un mistero magico che solo gli attori più straordinari sono in grado di compiere”.
Malgrado conosca bene Sorrentino, la sceneggiatura ha sbalordito Servillo. “Mi ha commosso fino alle lacrime e l’ho subito detto a Paolo”, ricorda. “È il sesto film che facciamo insieme e abbiamo una grande intesa, oltre a un profondo affetto e rispetto reciproci. È sempre molto eccitante lavorare con lui. Quindi, quando mi ha chiesto di interpretare questo ruolo, l’ho percepito più che altro come una prova che c’è qualcosa nel nostro rapporto che va al di là della dimensione professionale. Mi sono concentrato su questo sentimento e spero di essere riuscito a trasmetterlo, a lui e agli spettatori”.
Una cosa che sa per certa è che Sorrentino si aspetta che affronti il ruolo basandosi sul suo istinto. “Paolo tende a non dare mai molte linee guida prima di iniziare a lavorare su un film. Ma è molto preciso tra una ripresa e l’altra e sa come impartire indicazioni chiare in merito a quello che vuole ottenere una manciata di minuti prima del ciak seguente”, descrive Servillo.
A interpretare Maria c’è Teresa Saponangelo, che è stata diretta molte volte in teatro da Servillo e che conosce Sorrentino da anni. Rimane colpita dalla profondità dei sentimenti di Maria, che tiene unita la famiglia e tuttavia a volte va in pezzi. “Maria può essere triste e malinconica, ma anche vivace, gioiosa e divertente. Ha un’ampia gamma di caratteristiche che, quando appaiono tutte insieme, la rendono esplosiva. Sono stata felicissima che Paolo mi abbia offerto l’opportunità di interpretarla”, dichiara Saponangelo.
Nella prima parte del film, la storia tra Saverio e Maria possiede la vivacità di una storia d’amore, di un matrimonio con i suoi alti e bassi, costruito sulla tolleranza dei momenti dolorosi ed esasperanti. “Maria ama Saverio“, afferma Saponangelo, “anche se a volte lui la fa soffrire. Ho voluto esplorare questa contraddizione, una contraddizione che rende il personaggio e il rapporto molto interessanti.”
E queste non sono le uniche incongruenze di Maria. La sua propensione agli scherzi e a ficcare il naso dappertutto è in contrasto con il suo ruolo di madre affettuosa e tollerante di Fabietto. “Ha questo lato giocoso che tende a cogliere alla sprovvista tutti quanti, perché non ti aspetti che una persona che è la forza trainante della famiglia faccia di continuo la burlona”, osserva Saponangelo. “Maria oscilla in ogni istante tra felicità e tristezza, un’alternanza con cui personalmente posso identificarmi”.
Grazie alla loro pluriennale amicizia, Servillo e Saponangelo riescono a investigare il naturale rapporto tra marito e moglie, al contempo consapevole e leggero, scettico e fiducioso, scontento e affettuoso. L’atmosfera famigliare sul set amplifica tutto l’insieme, a giudizio di Saponangelo. “Le riprese sono state un’immersione totale non soltanto nel dolore ma anche nell’intimità di una famiglia composta di individui molto diversi”, dichiara.
Quando i ritmi della famiglia vengono scombussolati in modo così brusco, Fabietto e il fratello maggiore Marchino, aspirante attore, si ritrovano momentaneamente uniti nella pura e cruda onnipresenza del loro dolore. Ma le loro reazioni, come tutto quello che li caratterizza, sono in contrasto. E per quanto abbia il cuore spezzato per il giovane Fabietto, Marchino decide per conto suo come affrontare il futuro.
“È difficile per me parlare di Marchino come personaggio perché è indubbiamente molto vicino a mio fratello”, commenta Sorrentino. “È tipico della mia famiglia e di una certa mentalità di Napoli quel modo di ricercare sempre la leggerezza della vita anche nelle situazioni più drammatiche, di cercare sempre la nota leggera e il riso. Non è questione di essere superficiali, è una filosofia di vita. La codardia può essere una mossa astuta. È vero che può darsi che prima o poi i nodi vengano al pettine, ma non è detto, potresti non doverli mai affrontare”.
Marlon Joubert, che esordisce in un lungometraggio nei panni di Marchino, rimane affascinato dall’approccio gioviale alla vita del suo personaggio, ma anche dal suo amore per Fabietto. “Marchino è un ragazzo normale, come molti altri, ma coltiva i suoi sogni. Anch’io sono un fratello maggiore, quindi capisco il senso di responsabilità che provi quando hai un fratello più piccolo che ti prende come esempio”, afferma Joubert. “È un compito arduo e a 20 anni un giovane come Marchino è molto assorbito dalla propria vita. Eppure tra i due fratelli, malgrado la naturale distanza, esiste un amore sconfinato e incondizionato.”
Joubert trascorre del tempo con Marco, il vero fratello di Sorrentino, per farsi un’idea più accurata di come i due fratelli si relazionino o non si relazionino. “È stato molto schietto nel raccontarmi della sua vita, malgrado tutte le difficoltà che ha avuto nel farlo. E questo mi ha aiutato molto nel mio lavoro”, sostiene Joubert.
Per Marchino, il dolore è qualcosa che forse si può superare. “Marchino non sembra voler affrontare il presente, ma nella realtà dei fatti penso che gestisca la sofferenza a modo suo”, riflette Joubert. “Ha delle difficoltà a digerire e razionalizzare tutto quello che è successo. Ha bisogno di erigere maggiori resistenze rispetto a Fabietto, che ha una propensione ad affrontare la situazione con maggiore coraggio. Ma anche Marchino trova la sua strada”.
Tuffarsi in emozioni e difese intense non è stato facile, ammette Joubert. Ed è stata una sfida anche riattivare quei momenti sotto la direzione dell’uomo che li ha vissuti in prima persona. “Entrare in una sfera così intima della vita di una persona che vedi tutti i giorni e che è anche il regista del film, è stata un’esperienza molto insolita”, sostiene. “L’unico modo di affrontare il compito era con totale sincerità, senza alcuna affettazione, senza fare commenti o riflettere troppo. Si trattava solo di stare lì con Paolo, di ascoltare le sue parole, di ascoltare persino il suo modo di dirle, e di cercare di entrare davvero in connessione con la scena e con le circostanze”.
La sfida crea un’insolita vicinanza tra gli attori. “Una delle cose più belle e magiche di questo film è stata i rapporti che abbiamo costruito”, riassume Joubert. “Non mi riferisco solo a quello tra il mio personaggio e quello di Fabietto, ma anche ai rapporti meravigliosi che sono nati tra tutti gli attori sul set”.
Un membro della famiglia Schisa che non si vede di frequente è la sorella Daniela (interpretata dall’esordiente Rossella Di Lucca), costantemente rinchiusa nel bagno di casa mentre gli altri aspettano ore e ore che ricompaia e sia disposta a lasciare il suo nascondiglio solo in casi sorprendenti.
Il personaggio, più che una macchietta comica, è un richiamo alla realtà. “Nei miei ricordi d’infanzia, mia sorella trascorreva letteralmente delle ore chiusa a chiave in bagno”, riflette Sorrentino. “La mia impressione era che si stesse sempre facendo bella per uscire, che si stesse sempre preparando. Solo anni dopo, quando eravamo ormai adulti, ho appreso che nutriva un profondo e segreto amore per me e per mio fratello che non era in grado di rivelare a quell’epoca. È per questo motivo che ho creato questo personaggio misterioso, la voce dietro alla porta che ammette la sua sofferenza solo quando tutti se ne vanno”.
Zia Patrizia, la baronessa e le donne di È STATA LA MANO DI DIO
Se Maradona fornisce un tocco del divino, in È STATA LA MANO DI DIO la forza terrena viene generata dalle donne del film, le cui doti di generosità, affetto e perspicacia mantengono Fabietto a terra quando il terreno gli viene a mancare sotto i piedi. “Ho avuto la grande fortuna di crescere in una città in cui le donne sono figure molto forti e rispettate che le persone prendono come esempio”, dichiara Sorrentino. “Come spesso capita nella vita reale, le donne del film la sanno più lunga degli uomini. Essendo un maschio, Fabietto scopre le cose tardi. Per la maggior parte, riesce a spiegarsele grazie al fatto che i personaggi femminili che costellano il film lo aiutano con la loro comprensione più precisa della vita”.
Tuttavia, Fabietto è anche un adolescente solitario e come tale pieno di desideri inespressi, costantemente sopraffatto dalla bellezza e confuso dal potere della sessualità. Sorrentino collega lo stato d’animo adolescenziale con il cinema stesso e le sue sottocorrenti di bramosia e desiderio. Sostiene Sorrentino: “Quando Fabietto ha la fortuna di vedere il rapporto che esiste tra il cinema e la sfera femminile attraverso una fessura nella porta, è una rivelazione, un po’ come quella che Fellini sostenne di avere con le donne: una rivelazione che lo portò a ritrarre le donne come essere sovrumani. Fabietto percepisce questo e in qualche modo lo fa suo. Non lo perfeziona nel modo in cui fece Fellini, ma sul piano visivo lo coglie”.
Due donne in particolare esercitano un’influenza monumentale su Fabietto. Una è la sensuale e sensibile zia Patrizia, che appare nella sequenza iniziale del film nel suo surreale incontro con il santo patrono di Napoli, San Gennaro, e il Monaciello, figura fiabesca del folclore napoletano e spirito malizioso che può essere sia benevolo che dispettoso.
Per Fabietto, Patrizia è una presenza straripante nella sua famiglia, al tempo stesso disturbata, spiritosa e comprensiva. Si sente attratto dalla sua bellezza, ma anche dalla sua vulnerabilità e dal suo spessore. Dichiara Sorrentino: “Spesso nelle famiglie numerose esiste una moglie o un marito che se ne sta in disparte, che pensa in modo diverso, che si comporta in modo diverso, che è persino diverso sul piano fisico ed estetico. E solleva la curiosità degli altri perché si colloca al di fuori della rete dei fatti conosciuti che connette una famiglia. Questo è vero di Patrizia, che ha una visione drammatica della vita, mentre gran parte della famiglia Schisa considera la vita come qualcosa che va vissuto con leggerezza”.
Luisa Ranieri, attrice napoletana conosciuta, tra le altre cose, per aver interpretato l’icona dell’opera lirica Maria Callas nella miniserie televisiva Callas e Onassis, si è presentata alle audizioni per il ruolo di Patrizia perché “qualcosa in lei mi ha profondamente toccata”, dichiara. “La sceneggiatura mi ha fatto ridere molto, ma mi ha anche profondamente commossa”.
Prova affetto e tenerezza nei confronti di Patrizia e della sua vita complicata a causa dei conflitti coniugali, della violenza, dell’infertilità e, a volte, della rabbia e della tristezza incontenibili. “Patrizia è davvero una donna allo stato puro. Quando ho letto il copione la prima volta, ho pensato a quanto spesso definiamo pazze le persone che non hanno filtri o che non trovano un posto nella società o che sono estremamente sensibili”, afferma Ranieri. “Quello che ritengo più interessante di Patrizia è la disperazione che prova. Lavorando con Paolo, abbiamo un po’ accentuato questo aspetto, mettendo in evidenza le sue mancanze”.
Ranieri percepisce anche cosa lega Patrizia e Fabietto. “Secondo me quello che Fabietto vede in lei è il suo anticonformismo, oltre a provare un sentimento di attrazione. Lei lo fa sorridere e lo sorprende. D’altro canto, Patrizia è attratta da Fabietto perché sente che lui può comprendere chi lei è veramente. Il loro è un rapporto che si fonda su cose lasciate inespresse. Patrizia desidera davvero avere dei figli e penso che sia anche il desiderio di maternità a spingerla verso Fabietto”.
Sorrentino ha rivelato a Ranieri che il personaggio di Patrizia si ispira a una delle sue zie preferite. “Ma ovviamente è stata esagerata e portata a un estremo cinematografico”, precisa Ranieri. “Nel ruolo mi sono lasciata guidare da Paolo. Mi sono messa a nudo e a disposizione del personaggio”.
Un’altra donna, l’anziana e importuna Baronessa che vive al piano di sopra della famiglia Schisa, in modo inaspettato e improvviso offre a Fabietto un momento trasformativo. È interpretata da Betti Pedrazzi, che era stata precedentemente diretta da Paolo Sorrentino recitando con Toni Servillo nel film per la televisione SABATO, DOMENICA E LUNEDÌ nel 2004. Qui, in una scena spiazzante e commovente, impersona una donna che sceglie di usare il suo potere per dare a Fabietto una spinta ad andare avanti, restituendogli un impeto di sentimento.
“È un episodio inventato, ma al tempo stesso reale per le emozioni che provavo in quel periodo della mia vita”, precisa Sorrentino a proposito della provocante scena. “Io ho avuto un’iniziazione sessuale più convenzionale, ma questa scena è, come lo sono altre nel film, una rielaborazione di cose che sono successe a me o a persone che conosco. Mi piaceva molto l’idea che questa donna anziana rendesse questo un atto di pura generosità. Per lei è una manifestazione di vero amore, nel senso che concepisce l’idea di poter aiutare questo ragazzo che soffre, di poterlo forse liberare di un piccolo problema tra i numerosi altri che lo affliggono in quel momento”.
La mano di Maradona
Forse nessuno sportivo al mondo ha mai suscitato tanta strenua devozione né acquisito tali poteri demiurgici quanto Diego Armando Maradona nella sua breve vita. Per molti, guardare giocare il campione è molto più vicino a un’epifania spirituale del tifare per un’intera squadra. Il suo aspetto da ragazzo di strada dall’aria furfantesca, alto solo 165 centimetri, che sfoggia un fisico compatto che maschera la sua sublime velocità e lo straordinario controllo di palla non fanno altro che incrementare la sua misteriosità e il suo fascino. Senza dubbio, era umano a livelli quasi strazianti fuori dal campo — la sua vita privata costellata di conflitti, dipendenze, faide e problemi coniugali — ma questo rendeva la magia che era in grado di produrre con il suo corpo e il suo cuore ancora più innaturale. Lo scrittore Eduardo Galeano ha condensato il fenomeno in poche parole, definendo Maradona “il più umano degli dei”.
L’argentino è già considerato una brillante superstar del calcio in Europa quando iniziano a circolare voci di una sua possibile acquisizione da parte della squadra di calcio del Napoli. Ma dal momento che Napoli è una città difficile e priva di grandi capitali, e Maradona il calciatore più costoso di tutti i tempi, sembra un’assurdità degna di necessitare un gesto di intervento divino. Eppure accade. All’epoca, la squadra del Napoli non ha mai vinto neppure il campionato italiano. All’improvviso, Maradona porta non solo il trionfo (e due titoli di Serie A) ma anche una palpabile ondata di speranza e orgoglio a una città spesso ignorata e la città lo adotta, poi lo adora, quando diventa quello che mai avrebbe immaginato: una contendente.
L’Effetto Maradona trascende completamente lo sport. Ben presto Maradona diventa inseparabile da Napoli, il suo volto affisso lungo tutti i muri e gli edifici, il suo nome sacrosanto. “Io rappresento i nessuno”, disse una volta e i nessuno lo trasformarono nel loro santo patrono.
Può essere impegnativo spiegare la fascinazione che Maradona ha avuto sulla gente di Napoli. Sorrentino dichiara: “Penso che l’unico modo in cui si possa spiegare il fenomeno Maradona stia nel fatto che aveva un rapporto più stretto con il divino che con l’umano. Maradona non è arrivato a Napoli a bordo di un aeroplano, è addirittura apparso dal nulla come un dio. Ha offerto redenzione alla gente, come una figura religiosa, e ci ha invitati ad amarlo per i suoi peccati. Per i ragazzi della mia generazione, ha creato un rapporto con il calcio che va oltre la semplice tifoseria, è un rapporto che rasenta una gioia sconfinata, una gioia estenuante, quasi insopportabile”.
Andare a vedere giocare Maradona dà alla vita di tutti i giorni una carica elettrizzante. “Era la felicità a velocità turbo, perché non era solo questione di vedere un calciatore, c’era anche tutto il corollario che si portava dietro, la sensazione che nella vita tutto vada per il verso giusto, dell’attesa della domenica, un giorno di festa, un giorno in cui eri perennemente in uno stato di frenesia. Andavi allo stadio con gli amici in uno stato di completa sovra eccitazione ed era tutto un po’ avventato. A volte facevamo l’autostop per andare allo stadio o usavamo qualsiasi veicolo riuscissimo ad accaparrarci, oppure andavamo a piedi. Era una scusa per vivere delle avventure”, conclude Sorrentino.
La frase “la mano di Dio” viene associata per la prima volta a Maradona durante i (quarti di finale dei) Mondiali del 1986 in Messico, quando segna le due reti vincenti dell’Argentina contro l’Inghilterra. Il secondo gol è considerato il capolavoro di tutti i tempi, ma per quanto riguarda l’azione che porta al primo, il replay rivelerà che ha commesso fallo colpendo il pallone con la mano. Quando gli viene chiesto un commento dopo la partita, Maradona risponde sfacciatamente (che il gol è stato siglato): “un po’ con la testa di Maradona e un altro po’ con la mano di Dio.”
L’eco delle sue parole fa il giro del mondo, ma getterà nello scompiglio Sorrentino. Nel film, è lo zio di Fabietto, Alfredo, (interpretato dall’attore, regista teatrale e drammaturgo napoletano Renato Carpentieri) a usare la frase per descrivere l’unica spiegazione plausibile della ragione per cui la vita di Fabietto viene risparmiata, sollevando lo spettro del suo destino, malgrado sia stato radicalmente alterato.
“Ho sempre amato quella espressione perché riassume un atteggiamento nei confronti della vita”, dichiara Sorrentino. “Fabietto si salva da morte certa grazie alla sua passione per Maradona, un aspetto che inizia a prendere in considerazione solo quando suo zio, pazzo o illuminato – lascio che siano gli spettatori a decidere – gli dice che è stata la mano di Dio”.
Maradona fornisce a Sorrentino anche un primo assaggio della libertà dell’immaginazione. “Vengo da una famiglia che non aveva molte inclinazioni artistiche. La forma più alta di fantasia nella mia famiglia era l’ironia e l’abbandono a una bella risata, al divertimento. Da bambino, non ho frequentato il cinema, la letteratura o la fotografia. L’unico artista nella mia vita era Maradona. Ho scelto un percorso completamente diverso grazie alla creatività che ho scoperto in lui e anche nelle creazioni fiabesche di Napoli come Il Monaciello. Divenne il mio modo per sfuggire alla realtà”.
Capuano
Un’altra figura realmente esistente che gioca un ruolo catartico in È STATA LA MANO DI DIO è il regista napoletano Antonio Capuano, primo mentore di Sorrentino che, come dichiara egli stesso “mi ha trasmesso la gioia di fare cinema”. I film di Capuano – tra i quali VITO E GLI ALTRI, POLVERE DI NAPOLI co-sceneggiato con Sorrentino, PIANESE NUNZIO, 14 ANNI A MAGGIO, LUNA ROSSA, L’AMORE BUIO, LA GUERRA DI MARIO e il recente IL BUCO IN TESTA — sono noti per essere imbevuti di un intenso amore per Napoli e per la sua gente.
In È STATA LA MANO DI DIO, Capuano, con i suoi modi un po’ bruschi, indirizza Fabietto verso il suo futuro proprio nel momento in cui si trova in alto mare. Pieno di rigore e di fervore, che al tempo stesso spaventa e attrae, Capuano avverte Fabietto che la speranza può essere una trappola e lo sfida ad essere completamente sincero con se stesso.
“Nel film il dialogo con Capuano è una combinazione delle molte conversazioni che abbiamo avuto, non soltanto lavorando insieme, ma anche nel corso della nostra lunga amicizia”, precisa Sorrentino. “Riassume con precisione il tipo di essere umano che è Capuano — un individuo che amo e odio al tempo stesso, perché ha questo suo modo di provocarmi a disvelare me stesso, a essere completamente nudo sul piano emotivo e a rivelare quello che realmente sono. È bello e raro incontrare una persona come lui, ma implica anche un grosso sforzo per qualcuno come me”.
Sorrentino continua: “Per Fabietto, la cui vitalità ha subito una violenta battuta d’arresto, l’incontro con Capuano è una scossa. Capuano è una persona che non è mai rassicurante, non ama le chiacchiere insulse né i convenevoli. Per me, e per Fabietto, si rivela decisivo nell’alimentare il coraggio, non soltanto di fare il cinema, ma di farlo con valore”.
Nel film si percepisce anche la presenza di altri registi italiani: Fellini è in città per delle audizioni, Zeffirelli fa parte di uno scherzo e sul televisore della famiglia Schisa troneggia per tutto il tempo uno dei film preferiti di Sorrentino: C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA di Sergio Leone. L’epopea gangster drammatica del 1984 diventerà una pietra di paragone cinematografica per un’intera generazione di futuri cineasti. Benché famoso per la grandiosità delle sue immagini, la struttura complessa e gli affascinanti primi piani, il film è forse amato soprattutto per la somma descrizione delle illusioni infrante.
“Ho scoperto C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA quando avevo circa 20 anni, più avanti di Fabietto nel film”, ricorda Sorrentino. “Per me, è un film che è un sogno ed è un film che mi ha fatto sognare di diventare regista, come è stato per molti altri. Mi è piaciuta anche l’idea della videocassetta sul televisore, perché mi ricorda l’epoca in cui il modo più diffuso per vedere i film era noleggiare le cassette VHS — e in Italia tutti vivevano nel terrore di non restituire per tempo il titolo preso in prestito”.
Ritorno a Napoli
Eretta all’ombra delle pendici del Vesuvio, adagiata sulle scintillanti acque color zaffiro del Mar Mediterraneo, Napoli è sempre stata un luogo di aspri contrasti. È una delle città più antiche d’Europa e tra le più complesse d’Italia e questo la rende al tempo stesso ricca del denso fluire della storia e della coraggiosa resistenza quotidiana.
È STATA LA MANO DI DIO è al tempo stesso una lettera d’amore a Napoli e un portone aperto sullo spirito amante della vita che caratterizza la città. Ma la Napoli molto particolare ricercata da Sorrentino per il film è semplicemente quella che lui chiamava casa. È la Napoli più stretta, più intima che conosceva da ragazzino piccolo borghese che trascorreva il tempo andando a scuola, stando in famiglia e aspettando la partita di calcio tutte le domeniche.
Vent’anni dopo aver diretto a Napoli il suo primo film, L’UOMO IN PIÙ, Sorrentino ritorna per la prima volta nella sua città con una troupe cinematografica. “Che effetto mi ha fatto tornare? È stato meraviglioso, molto eccitante. Divertente”, commenta Sorrentino. “Non è facile per me riassumere come mi sono sentito a tornare a Napoli perché è come dover riassumere una vita intera”.
Girandovi in questo momento della sua vita e della sua carriera, osserva la città in nuovi modi. “Sono sempre vissuto in una casa dalla quale non si poteva vedere il mare. Ma facendo questo film, ho avuto il privilegio di starci proprio sopra”, riflette Sorrentino. “E finalmente ho capito cosa intendesse Raffaele La Capria scrivendo Ferito a morte [romanzo vincitore del Premio Strega in cui La Capria scrive della distanza esistente tra ‘la Napoli bagnata dal mare e la Napoli dei vicoli, del Vesuvio e del contro Vesuvio’]. Napoli non è solo una città di quartieri. Alcuni godono del mare, mentre altri ne sono privati. E mi sono reso conto che questo può modificare radicalmente il sentimento viscerale di una persona nei confronti della città”.
Anche molti componenti del cast sono cresciuti a Napoli e l’hanno vista evolversi. Dice Toni Servillo: “Napoli è una città che si muove rapidamente, impossibile da tenere ferma. Paragonata con la Napoli di L’UOMO IN PIÙ, la città è molto cambiata, come il resto del mondo. Ma Napoli è sempre in grado di difendersi da sola”.
Dal momento che la Napoli del film doveva essere la Napoli incisa nella memoria di Sorrentino, il regista ripercorre il più possibile i suoi passi. “Sono andato a cercare i luoghi in cui sono cresciuto”, dichiara Sorrentino. “Il set della casa della famiglia Schisa è un appartamento nello stesso edificio in cui vivevo io, ma al piano sopra al nostro. Forse non sarà il massimo sul piano cinematografico, ma è estremamente reale”.
Benché l’universo di È STATA LA MANO DI DIO non appartenga in modo evidente alla nostra epoca ipertecnologica, Sorrentino evita ogni riferimento macroscopico agli anni ’80 per mantenere il film in una condizione emotiva in parte sganciata da riferimenti temporali. “Non c’è dubbio che il film sia ambientato in un dato luogo e periodo, ma non è immerso nella cultura degli anni ’80”, spiega. “Al contrario, abbiamo optato per una via di mezzo nell’approccio agli ambienti e ai costumi, con alcuni indicatori degli anni ’80, ma senza esagerare”.
Lo scenografo Carmine Guarino, che ha precedentemente lavorato con Sorrentino come assistente scenografo ne IL DIVO, intreccia i ricordi del regista con immaginazione e dettagli che caratterizzano i personaggi. “Paolo voleva che tutto fosse in uno spazio che potesse essere il più universale possibile, quindi questa è stata la direzione che ho preso”, sostiene. “Tuttavia ci sono alcuni set che fanno maggiore riferimento all’epoca, come la camera di Patrizia, dove ho usato un laminato completamente bianco, molto in voga all’inizio degli anni ’80, perché ho ritenuto che contribuisse a illuminare il personaggio”.
Malgrado riescano a girare nello stesso condominio in cui aveva vissuto Sorrentino, negli anni l’edificio è stato ristrutturato, dunque Guarino ha il compito di ridare vita a qualcosa di effimero. “Paolo ricordava ogni centimetro quadrato della sua casa”, osserva Guarino. “Abbiamo riprodotto tutti i dettagli – i pavimenti, la carta da parati e gli arredi – basandoci esclusivamente sui suoi ricordi. Per la stanza di Fabietto, abbiamo ricreato l’aspetto della stanza di Paolo, fin nei minimi particolari, in modo da poter trasmettere le emozioni e i sentimenti di quell’ambiente”.
I luoghi reali rappresentano l’ossatura principale delle riprese, ma anche gli effetti digitali aiutano a replicare la Napoli d’annata, eliminando grattacieli e condutture della vita quotidiana odierna. “Per esempio, sullo sfondo della scena in cui Fabietto e Saverio parlano mentre due ragazzi si baciano, c’era un edificio molto moderno che abbiamo sostituito con uno in colori molto tenui per minimizzarne l’impatto su quel momento”, spiega Guarino.
Anche la sequenza di apertura del film, dal mare del golfo a pelo d’acqua verso la città sulla baia baluginante, viene valorizzata digitalmente. “Abbiamo iniziato ricostruendo un autentico motoscafo simile a quelli che usavano i contrabbandieri di sigarette”, spiega Guarino. “Ma nel tragitto verso il centro di Napoli, abbiamo dovuto ritoccare tutto quello che si vede, cancellando le imbarcazioni moderne ed elementi contemporanei come le antenne, le parabole e le parti attuali della città”.
La combinazione di digitale e reale viene adottata anche per ricreare lo Stadio San Paolo, oggi ribattezzato Stadio Diego Armando Maradona. “Era una scena importante per Paolo”, osserva Guarino, “quindi abbiamo dovuto trovare il modo di far sembrare lo stadio così come era nel 1985. Innanzitutto ho cercato una pista da atletica il più possibile simile a quella che c’era al San Paolo all’epoca. Poi ho intrapreso la ricerca di uno stadio che corrispondesse alla conformazione del campo. E in ultima analisi abbiamo ridisegnato l’intero Stadio San Paolo in 3D, dalle gradinate alle piste alle tribune. Una volta ricostruiti i materiali e le strutture dello stadio in 3D, abbiamo potuto sovrapporre le immagini sulle riprese originali”.
In È STATA LA MANO DI DIO c’è una location che esiste al di fuori, o quanto meno al margine della realtà, nella primissima sequenza del film, quando Patrizia se ne va in giro con il santo patrono di Napoli, San Gennaro, fino a un’abitazione dove incontra Il Monaciello, e improvvidamente riceve da lui un pagamento. Nella sceneggiatura, quella visione è riccamente descritta e per Guarino si tratta di renderla manifesta. “La location doveva essere in uno stato di decadimento, ma al tempo stesso nobile e sontuosa, quindi non facile da trovare”, osserva lo scenografo. “Nel salone dove Patrizia incontra San Gennaro, il lampadario caduto è descritto in sceneggiatura come una forma che richiama una balena spiaggiata”.
Questo tipo di metafora visiva evocativa è tipica di Sorrentino, sostiene Guarino. “La sua scrittura è molto specifica e precisa. Paolo è l’unico regista che io conosca che mi permette, alla lettura della sceneggiatura, di visualizzare già il film finito”.
L’emozione assume il comando: la fotografia
È STATA LA MANO DI DIO cambia lo stile di riprese vorticoso e fastoso per cui è conosciuto Sorrentino in movimenti di macchina più tranquilli e semplici. Tuttavia, per essere più finemente in sintonia con le emozioni, i rapporti interpersonali e la natura del periodo della giovinezza, è necessario che le immagini siano meno accese. Sorrentino si rivolge a Daria D’Antonio che firma per la prima volta la fotografia di un suo film. Lavora da molti anni nella squadra degli operatori di macchina ed è la prima donna a vincere due volte il Globo D’Oro per la Miglior cinematografia per LA PELLE DELL’ORSO di Marco Segato e RICORDI di Valerio Mieli.
D’Antonio è una collaboratrice ineccepibile. “Non ho nemmeno dovuto spiegarle cosa volessi perché dando prova di sensibilità ha istintivamente capito che le immagini dovevano essere sobrie e fare un passo indietro per lasciare spazio alle emozioni”, afferma Sorrentino.
Per parte sua, D’Antonio sostiene di aver tratto l’ispirazione che le serviva dalla sceneggiatura. “Fin dal principio, ho sentito che sarebbe stato un film molto intimo e commovente, ma anche molto divertente. Mi ha subito colpito profondamente”, dichiara.
A volte, è D’Antonio a temperare l’estetica di Sorrentino. “Dal punto di vista cromatico, all’inizio avevo la tentazione di usare i toni acidi di quel periodo, per dare la sensazione di guardare una videocassetta VHS”, ricorda Sorrentino, “ma Daria, che ha uno spirito più acuto quando si tratta di luce, era scettica e mi sono reso conto che mi indicava la giusta direzione per la storia”.
Le tonalità cromatiche variano in modo sottile lungo tutto il film, riflettendo il percorso di un ragazzo che precipita rapidamente nella desolazione dalla quale riesce a uscire dopo un giro tortuoso. “Paolo e io abbiamo parlato di una prima parte del film dai colori vivaci che, con lo svanire della felicità di Fabietto, si smorzano e poi tornano brillanti alla fine”, descrive D’Antonio.
La macchina da presa è così discreta che in alcuni momenti si ha la sensazione che catturi di nascosto immagini di vita reale, come nel caso del pranzo estivo di Fabietto insieme alla sua famiglia, in un tripudio di piatti ricolmi di prelibatezze, tra risate per le reciproche vanità e una gita in barca che resterà impressa nella mente del ragazzo. Dice Sorrentino della scena: “È una poesia prosaica, elementare, fatta di parolacce, cibo e interazioni tra famigliari, ma è una poesia che penso sia comune ai pomeriggi di ozio nella mente di un ragazzo”.
Per D’Antonio, si tratta di dare a una scena del genere lo spazio di cui ha bisogno per svolgersi in modo organico, come avviene nei raduni famigliari. In altri momenti, la macchina da presa è una testimone taciturna di emozioni pure. “Il mio scopo è stato di rispettare sempre la natura sensibile della storia. Abbiamo voluto catturare momenti molto particolari ed evitare costruzioni visive su ampia scala in cui quei momenti rischiavano di andare perduti”, osserva.
Sorrentino tiene D’Antonio sempre sulla corda, ma a lei va benissimo così. “Paolo è molto concentrato, è un gran lavoratore e legittimamente esige che le persone che lavorano con lui mantengano un certo grado di concentrazione e attenzione”, commenta. “Mi piace molto lavorare con lui perché è alquanto esigente, ma ti aiuta anche ad arrivare a cose meravigliose”.
Vestire gli Schisa
Come per gli altri aspetti del film, Sorrentino vuole che anche i costumi riflettano i propri ricordi, ma che al tempo stesso si fondano armoniosamente nel contesto. Non ci sono vistosi completi di alta sartoria, né capi tipici degli stilisti degli anni ’80, ma il tenue contorno delle silhouette dei primi anni ’80. “Paolo voleva ricreare la verità e non voleva alcun eccesso sul piano visivo”, dichiara il costumista Mariano Tufano, che qui lavora con Sorrentino per la prima volta.
Anche Tufano cresce nella Napoli degli anni ’80, quindi per creare il guardaroba comincia a mescolare e accoppiare i ricordi molto specifici di Sorrentino con le reminiscenze della propria gioventù, le fotografie d’archivio e le descrizioni dei personaggi. “All’inizio mi sono posto nell’ottica di uno spettatore di un viaggio attraverso i ricordi di Paolo di quello che indossavano i suoi fratelli e di quello che portavano lui e i suoi amici. Ma poi tutto questo si è fuso con le mie riflessioni e il mio vissuto di adolescente napoletano per creare qualcosa che non fosse realismo in piena regola”, spiega.
Oltre a vestire la famiglia Schisa, Tufano disegna circa 3500 costumi per le comparse del film. “Abbiamo fatto molto affidamento sui mercati italiani di abbigliamento vintage”, osserva. “Abbiamo passato settimane a collezionare materiali a Firenze e Napoli e abbiamo realizzato da zero tutto quello che non siamo riusciti a trovare”.
Ad eccezione dell’audizione di Fellini, Sorrentino ricerca una scala cromatica attenuata anche nei vestiti. “Ho fatto del mio meglio per rispettare la sua volontà, malgrado gli abbinamenti di colore in voga negli anni ’80 fossero piuttosto sgargianti… blu elettrici, rossi e gialli”, dichiara Tufano. “Per Fabietto, ho scelto un colore che ho ritenuto appartenesse a quel periodo, incantevole e tuttavia malinconico: una tonalità molto pallida di giallo paglierino”.
Tufano inserisce una nota fantastica nella sequenza iniziale del film. “È un momento da sogno, quindi Paolo aveva scelto un’auto d’epoca e avevamo vestito l’autista come se uscisse direttamente dagli anni 1920. Patrizia indossa un bizzarro abito bianco fuori contesto. È stata una mia scelta personale, approvata da Paolo. Abbiamo usato un tessuto trasparente, superfine che lascia intravedere il corpo sinuoso di Luisa. Era un po’ azzardato, ma trovo che funzioni molto bene per quel momento”.
La conclusione della storia: il montaggio e le musiche
Come per la fotografia, la scenografia e i costumi, anche lo scopo del montaggio è quello di mantenere una disarmante sincerità al centro della struttura di un film che riproduce un flusso di vita. Per questo Sorrentino si avvale della collaborazione del suo montatore storico, Cristiano Travaglioli, che ha vinto un European Film Award per LA GRANDE BELLEZZA.
Tra i due esiste uno scambio di idee unico a livello creativo. “Conosco Paolo da 24 anni ormai e ho seguito il suo percorso di regista, quindi non abbiamo molto bisogno di parlare della sua visione del film, perché inevitabilmente abbiamo una comprensione reciproca senza che sia necessario definire ogni singolo dettaglio”, commenta Travaglioli. “Tra noi è come una partita di ping-pong, la pallina sfreccia veloce da una parte all’altra del tavolo”.
Travaglioli inizia il suo lavoro pienamente consapevole della differenza che esiste tra questo film e i precedenti di Sorrentino. “La semplicità e la natura essenziale del film sono scelte formali che ho sempre tenuto in considerazione”, osserva. “Ma l’aspetto della storia che mi interessava maggiormente, e che mi auguro tocchi molto gli spettatori, è l’attenzione sulle emozioni più primarie e tuttavia più profonde della nostra esistenza – la felicità, la serenità, la gioia di un pomeriggio al mare, la perdita, il disorientamento, il dolore del lutto… sono tutte emozioni umane che ciascuno di noi prova nella vita”.
Il montaggio inizia mentre le riprese sono ancora in corso. “Mentre Paolo stava ancora girando, ho cominciato a strutturare il film”, spiega Travaglioli. “Il ritmo spesso è stato dettato dal girato stesso e dalle emozioni nella scrittura. In seguito, al termine delle riprese, Paolo e io abbiamo rivisto insieme il film per concentrarci sul tessuto narrativo della storia, spostando alcune scene in punti che ci sono apparsi più incisivi”.
Ogni volta che si tratta di prendere una decisione, cosa che avviene di frequente, l’istinto è sempre quello di scegliere il percorso più diretto. “Sento che le scelte che abbiamo compiuto sono state mirate e ardite”, afferma Travaglioli. “Paolo è sempre molto coraggioso. Può sembrare una caratteristica essenziale a tutti i registi, ma vi assicuro che non è un tratto così comune, anzi è raro. Paolo non ha paura di sperimentare, di ricercare le cose e non ha paura di cimentarsi in nuovi territori”.
Tuttavia, a volte Travaglioli è sopraffatto dalla prossimità emotiva di alcune scene. “Mi è capitato di trovarmi da solo a montare sequenze di eventi della vita di Paolo che so da anni e ho sentito un profondo dolore, insieme a un sacro rispetto per le interpretazioni degli attori”, ammette.
Un ultimo elemento che differisce in modo drastico dalle consuete enfasi di Sorrentino è la musica del film. Analogamente a Fabietto, che è sempre attaccato al suo Walkman, Sorrentino da ragazzo ha ascoltato molta musica. Ma quando si tratta di decidere della colonna sonora, sceglie di non attingere a quelle influenze e di mantenere come ritmo primario del film le voci umane.
“Come tutti, trovo che la musica sia uno dei principali detonatori di emozioni, aiuta a ricordare e fa affiorare sentimenti profondi. Ma ho sentito che includere la musica che ascoltavo in quegli anni avrebbe significato scivolare nella retorica”, spiega. “Quindi ho deliberatamente scelto la colonna sonora come se stessi facendo un film su un’altra persona”.
La musica si sposta in primo piano solo nell’ultimissima scena del film. Mentre è seduto su un treno che lo sta portando a Roma e Napoli svanisce fisicamente, Fabietto ascolta nelle sue cuffiette la canzone “Napule è” del cantautore napoletano Pino Daniele che proietta il film al tempo stesso nella promessa del futuro e in una fantasticheria dolce e triste. Il brano di successo, pubblicato nel 1977, è un’ode sentimentale alla città, con il suo testo che inizia con “Napoli è mille colori, Napoli è mille paure, Napoli è la voce dei bambini che sale piano piano e tu sai che non sei solo”.
“È un brano molto bello e malinconico che dice che puoi lasciare Napoli se vuoi, ma che Napoli resterà sempre dentro di te. Per certi aspetti, è un perfetto compendio dell’intero film”, dichiara Sorrentino.
La fine sembra anche riagganciarsi alla dichiarazione di bilancio di Maradona che apre il film: “Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male”. Non sono parole di rammarico, ma sono imbevute di un desiderio perenne e intenso che potrebbe riferirsi a Fabietto in quel preciso momento o decenni dopo, che potrebbe riferirsi a qualunque dei personaggi o a chiunque abbia attraversato quella terra di nessuno che è la perdita e sia andato avanti.