Intervista esclusiva a Silvia Luzi e Luca Bellino, registi di “Il cratere”
Alla 32a Settimana Internazionale della Critica, nell’ambito della Mostra di Venezia, è stato presentato IL CRATERE, primo film di “finzione” della giornalista Silvia Luzi e del documentarista Luca Bellino.
Fondatori della casa di produzione indipendente “Tfilm”, i due registi si sono fatti conoscere e apprezzare nell’ambiente cinematografico grazie a lavori quali LA MINACCIA e DELL’ARTE DELLA GUERRA, documentari dalla forte connotazione sociale e politica. Il loro film d’esordio ruota attorno alla figura di Rosario, un ambulante che gira per le feste di piazza e che, in guerra col futuro e col destino, vede nelle doti canore della figlia Sharon l’unica possibilità di rivalsa oltre che di sopravvivenza. IL CRATERE ha sorpreso la critica a Venezia meritando numerosi elogi, e in attesa dell’uscita al cinema ne abbiamo parlato con i registi.
Quando vi siete imbattuti per la prima volta in Sharon Caroccia?
Il casting del film è stato lungo, abbiamo incontrato molte famiglie e trascorso molto tempo nelle tv private dove le famiglie accompagnano i ragazzini per farli esibire. Dopo alcuni mesi avevamo individuato i protagonisti ed eravamo pronti a girare. Poi un amico, Genny Valentino che gestisce Kronos digital Studio, una sala di incisione di Cercola, ci ha suggerito di farci un giro in una fiera. Siamo andati alla fiera della madonna di Pompei, e lì ci siamo imbattuti in un camion di pupazzi, in un padre che imboniva i passanti e in una ragazzina con una bellissima voce che aveva un capannello di gente intorno. Abbiamo conosciuto Sharon e Rosario e non abbiamo avuto più alcun dubbio. Era nato il film.
Avevate già in mente di fare un film di questo tipo o è stato l’incontro con Sharon e suo padre Rosario a farvi venire l’idea?
IL CRATERE esisteva già, avevamo una sceneggiatura già scritta che conteneva tutti gli elementi presenti: il rapporto padre-figlia, la musica, la voglia di riscatto, i sogni eroici e disperati di un padre e la ribellione dell’adolescenza. L’incontro con Sharon e Rosario ha dato corpo e voce alla nostra immaginazione e la loro vita reale ci ha permesso di inserire alcuni elementi che in sceneggiatura non c’erano, come per esempio i peluches.
Sharon e il padre non avevano mai recitato: quali sono state le difficoltà e quali i vantaggi nel dirigere degli esordienti?
Dirigere attori esordienti è un lavoro molto delicato, ma che sposa perfettamente la nostra idea di cinema. Con Sharon e Rosario è avvenuto tutto in modo molto graduale. Abbiamo girato in sequenza, preparando scena per scena. La difficoltà maggiore è stata la trasformazione delle loro indoli reali. Per farlo abbiamo usato strategie di lavorazione opposte. Sharon è vivace, sorridente, solare e per tirarle fuori gli umori bui, la cupezza e le lacrime del personaggio abbiamo lavorato di sottrazione. Con lei è stato un rapporto intimo, esclusivo, emotivo. Con Rosario invece è accaduto l’opposto ed è stata la nostra più grande soddisfazione. Rosario ha un incredibile talento, una capacità inconscia e naturale di stare davanti alla macchina da presa. Abbiamo lavorato di estrazione, cercando di far emergere ciò che già era presente in lui, una rabbia celata, una sofferenza che arriva da una vita che non è stata semplice. Le difficoltà, se così vogliamo chiamarle, sono state quelle di fare emergere in Sharon e Rosario emozioni profonde e potenti e di insegnare loro a gestirle.
Dove avete girato? I luoghi delle riprese vi sono stati consigliati da Rosario Caroccia?
L’ambientazione per noi era già chiara in scrittura. Cratere è il nome che noi diamo ad uno spazio quasi onirico, ad una geografia di luoghi liquidi, ad una periferia napoletana che nel film non è riconoscibile. Oltre a questo, Il Cratere è un film di spazi chiusi, claustrofobici. Volevamo creare un dispositivo che ci permettesse di mettere in scena il tema della rivalsa attraverso il figlio partendo da una confusione di piani che portasse lo spettatore a chiedersi ”E’ tutto vero o è tutto finto’?”. Questo era il cortocircuito, la grande scommessa. La scelta di girare nella vera casa di Sharon e Rosario è dunque figlia di questa scelta, così come la scelta di utilizzare location ”reali” già individuate in fase di scrittura: lo studio di registrazione Kronos di Cercola, che è un luogo simbolo per la musica neomelodica, capace di lanciare cantanti apprezzati, e Ciao TV, canale privato che dà spazio a questi cantanti, dai bambini agli adulti, dando loro la possibilità di farsi conoscere in tutto il territorio campano.
Cosa vi ha spinto a passare dalla forma documentario al cinema di finzione?
IL CRATERE è un esperimento, è la nostra idea di cinema, la possibilità di portare avanti un metodo di lavoro già presente nei nostri documentari. Il salto dal documentario alla finzione è stato naturale, volevamo restituire un contesto sociale duro, difficile e utilizzare uno stile deciso, forse rischioso, ma che ci rappresenta fino in fondo.
Abbiamo potuto apprezzare sia LA MINACCIA che DELL’ARTE DELLA GUERRA grazie al Napoli Film Festival, notando la volontà e la capacità di affrontare tematiche sociali e politiche con un “occhio cinematografico” non così consueto a livello documentaristico. Anche se narra una storia “privata” IL CRATERE pare avere a suo modo connotazioni politiche e ovviamente sociali: c’è qualcosa che accomuna idealmente le tre opere?
Il Cratere non ha nessun intento di denuncia sociale e vuole solo raccontare un piccolo mondo, una storia intima. Detto questo è innegabile il legame con i nostri precedenti lavori, il focalizzarci sulla rivolta, sulla ribellione, sulla resistenza eroica. Nel film Rosario e Sharon sono circondati da un mondo che percepiscono come nemico, estraneo, un ambiente nel quale – ognuno a modo proprio – cerca di affermare la propria identità, di dire ”questo sono io”. Uno spazio/destino ostile al quale entrambi scelgono di rivoltarsi.
Come raccontereste in poche parole IL CRATERE?
La storia di due ribellioni. Il racconto di un padre, di una figlia, di un sogno che diventa ossessione, di scelte che non possono essere giudicate, di una fuga a due, dove il cortocircuito che ti fa chiedere se sia tutto vero o tutto finto è il cuore del film.
Il film si è meritato la presentazione alla Settimana Internazionale della Critica a Venezia: la considerate un’opportunità in un periodo di profonda crisi distributiva oppure una maggiore responsabilità per le aspettative di critiche e pubblico?
La Settimana della Critica è il luogo giusto per presentare un’opera prima. Detto questo la crisi della distribuzione è così profonda che nessun festival, nessuna critica positiva, nessuna accoglienza per quanto calorosa può aiutare un film se non un cambiamento radicale delle logiche distributive.